Prefazione

 

Quasi tutti sanno che i fratelli Wright, due ingegnosi riparatori di biciclette della provincia americana, grazie alla loro inventiva ed alla fine manualità sono riusciti a costruire la prima macchina più pesante dell'aria in grado di sollevarsi autonomamente dal suolo. Di solito con una certa soddisfazione, si pensa come due uomini di campagna siano riusciti ad affrontare e risolvere un problema che aveva nel tempo portato a clamorosi fallimenti i "progetti volanti" di numerosi luminari della scienza. La maggioranza di questi tentativi si erano catastroficamente risolti in modo tanto fragoroso quanto spettacolare; in altri casi la macchina avrebbe forse potuto volare se il "conduttore" avesse avuto la minima cognizione di come "pilotare".

Vi sono molte ragioni per cui Wilbur ed Orville Wright furono i primi a volare in modo autonomo e controllato. Prima di tutto, contrariamente a quanto tramandato dalla leggenda popolare, le loro conoscenze fisiche e matematiche erano decisamente buone e la conduzione dei loro esperimenti seguiva uno standard scientifico: nulla veniva dato per scontato. Secondo, la loro manualità era tale per cui riuscivano a tradurre immediatamente le loro idee in un manufatto. Ma il concetto più importante colto dai Wright , che era probabilmente sfuggito ai predecessori, fu che dopo la realizzazione di una macchina volante è assolutamente importante imparare a controllarla.

Così, mentre alcuni con i loro complessi attrezzi si erano incautamente lanciati da una montagna piuttosto che da una mongolfiera (spesso rompendosi l'osso del collo nel tentativo), i due fratelli di Dayton (Ohio) affrontarono invece il problema con molta cautela, passo dopo passo. Dapprima esposero ai venti costanti di Kitty Hawk il loro "Flyer", ben assicurato da funi di ormeggio, cercando di appropriarsi della originale tecnica di controllo. Seguirono quindi delle planate, via via più lunghe, finché, quando venne il momento di montare il motore, i Wright si potevano già considerare i più esperti "veleggiatori" del tempo.

Nei documenti dei Wright non si fa particolare cenno al problema dell'atterraggio. Infatti, al tempo, l'esecuzione di una virata ed il ritorno al volo livellato costituivano già un problema simile a quello che quasi un secolo dopo comportò il l superamento della velocità del suono. L'aeroplano di allora aveva un carico alare irrisorio (2,5 Kg per metro quadro), con una velocità di atterraggio di 35 Km/ora, o anche meno in presenza di vento, ed eventuali danni potevano essere riparati direttamente sul campo.

Ci sarebbe ancora voluto molto per avere mezzi a doppio comando e la possibilità di una vera istruzione: i piloti del 1910 non potevano far altro che imparare per imitazione. I francesi realizzarono un rudimentale simulatore, che veniva fatto oscillare a mano dall'esterno e che somigliava solo lontanamente ad un Antoinette. Se non altro, poteva servire all'allievo per avere un'idea di come funzionavano i controlli e quali assetti bisognasse tenere nelle salite, nelle discese e nelle virate.

Vi potrete chiedere che cosa abbia tutto questo a che fare con l'atterraggio. Il fatto è che in quei tempi, quando gli aerei toccavano terra alla velocità di un passo veloce, non era un problema lasciare che l'allievo tentasse di atterrare per conto suo. D'altro canto gli aerei di allora non offrivano alternative. E' inoltre interessante notare che se i fratelli Wright avessero voluto stare entrambi sul loro mezzo, per imparare l'uno dall'altro, la velocità di atterraggio, invece che di 35 Km/h, avrebbe dovuto essere due o tre volte superiore. I moderni addestratori biposto atterrano infatti ad una velocità almeno doppia rispetto a quella dei "flyer" ed i moderni jet eseguono l'avvicinamento a velocità superiori a quelle di crociera di un aereo di linea degli anni '30. Personalmente dubito che i piloti del tempo sarebbero stati, senza alcuna esperienza od istruzione, in grado di far atterrare un aereo moderno, certamente non uno fra i pochi modelli a carrello biciclo che sono ancora oggi in produzione.

Questo riconduce allo scopo di questa pubblicazione, che è dedicata al problema dell'atterraggio. Ben pochi istruttori non affermerebbero che l'atterraggio sia l'esercizio più difficile per un allievo-pilota. E' pur vero che, saltuariamente, si trovano dei piloti in addestramento che affrontano senza alcun problema questa parte del corso: per questi pochi fortunati atterrare risulta spontaneo quanto salire, scendere o virare. Ma la gran parte di chi ha ottenuto un brevetto di pilotaggio, me compreso, ci ha messo un bel po' per saper giudicare un avvicinamento, valutare la discesa ed eseguire la richiamata, tutte cose che richiedono un buon colpo d'occhio ed una coordinazione superiore alla media.

Il mio primo addestramento alla RAF è avvenuto sui Tiger Moth, prima dell'avvento degli interfoni elettronici. Noi avevamo i "tubi Gosport" (una specie di telefono domestico dell'era vittoriana), che rendeva comprensibile una parola su dieci. Io avevo la cattiva abitudine di arrivare "corto", cosa che aveva messo a dura prova la pazienza del mio istruttore. Se egli avesse avuto allora le odierne cognizioni sull'addestramento, il mio problema sarebbe stato individuato, corretto e perfezionato. Invece il mio istruttore preferiva metterla sul teatrale. Durante un avvicinamento mi allarmai quando lo vidi slacciarsi la cintura ed alzarsi in piedi nell'abitacolo anteriore. "Cosa sta facendo, signore?" gli chiesi con una certa apprensione attraverso il tubo di comunicazione. "Sto andando ad aprirti il dannato cancello per farti entrare!" mi rispose. Da quel momento non sono mai più arrivato corto.

Questa pubblicazione è dedicata ai piloti in formazione, per dar loro dei consigli su tutti gli aspetti dell'atterraggio, agli istruttori, per sapere come venire incontro all'allievo che non sembra in grado di capire, ed ancora ai piloti esperti, bisognosi di qualche buon consiglio per aver assunto delle cattive abitudini riguardo all'atterraggio (succede a tutti prima o poi).

Questo libro può sembrare voler dettare delle regole universali, il che costituirebbe uno scopo molto pericoloso per l'autore, ma giudicando dal numero di incidenti che continuano ad accadere in tutto il mondo (coinvolgendo a volte anche piloti molto esperti) mi pare ci sia bisogno di un'analisi come questa, una pubblicazione completamente dedicata ai problemi dell'atterraggio. Spero quindi che questo lavoro torni utile all'allievo che incontra difficoltà in questa fase del volo, a dare consigli ai neofiti su come perfezionare i propri "arrivi" e, se posso osare, ad offrire alle mani esperte alcune tecniche in grado di migliorare lo standard già elevato dei loro atterraggi.