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Il Volo racconta...


L'atterraggio

Il paracadutista si lamentava perché non molti piloti erano disposti a portarlo in quota per i suoi lanci.

Era un uomo sui quarantacinque anni e con lui c'era suo figlio adolescente che era eccitato dall'attività del padre e che si dava un gran da fare nel preparare le attrezzature per i suoi lanci.
Era un paracadutista di precisione; dopo i lanci, direzionava il paracadute al fine di cadere sopra un quadrato di gomma nera precedentemente preparato al quale era collegato un piccolo apparecchio digitale che calcolava di quanti centimetri avrebbe mancato il centro.

Ero in un delirio di ingiustificata autostima e gli proposi di salire sul mio deltaplano per portarlo a quota duemila metri circa.
Parlammo un poco delle modalità del lancio perché in effetti era la prima volta che eseguivo una manovra di quel genere. Lui mi disse che sarebbe stato meglio se, una volta giunti in quota, avessi spento il motore e cabrato leggermente, per evitare un'improbabile incidente e cioè che lui finisse nell'elica.

Ero emozionato e dentro di me speravo che tutto andasse bene anche per essere all'altezza della situazione. Non era l'ultimo arrivato. Aveva vinto diverse gare a livello nazionale ed era veramente un asso del lancio di precisione.
Gridai "via dall'elica", tirai con sentimento ed il motore si avviò. Il rumore era rotondo e parecchi curiosi osservavano la scena.
L'uomo si sistemò sul seggiolino posteriore ed assicurò la presa delle sue mani al telaio del deltaplano. Io allacciai le cinture, infilai il casco e i guanti e accelerando mi portai in finale di pista sostando a quarantacinque gradi e aumentando i giri del motore fino a sentirlo perfettamente pieno e far scomparire le vibrazioni.
Controllai il braccio finale della pista, dopodiché mi portai al centro e sostai per una decina di secondi. Guardai il paracadutista dietro me per essere certo che fosse assicurato bene al seggiolino e al telaio; lui mi diede una pacca sulla spalla e alzò il pollice. Gli risposi annuendo con il capo e alzando a mia volta la mano.
Abbassai la visiera nera del casco fino quasi alla chiusura lasciandola aperta per circa cinque centimetri, mani parallele sulla barra e tutto motore.

Cominciammo a rollare velocemente sulla pista e come sempre ripetei nella mente la frase che mi accompagnava nei miei decolli: "la tua strada è dritta verso il cielo".
Poco dopo spinsi con delicatezza la barra e ci staccammo dal suolo. Feci quasi subito una virata a sinistra senza mai lasciare il gas così che continuavamo a salire. In seguito l'uomo mi disse di essere stato sbalordito dalla potenza della mia macchina.
In effetti con solo due 360 gradi eseguiti sopra la pista eravamo già a duemila metri. Il paracadutista controllò il suo altimetro e mi fece segno con la mano di livellare il volo. Io non capii bene quel gesto e cabrai l'ala stallando leggermente.
Lui mi fece cenno di aspettare ma ormai avevo spento il motore.

Riattivai la leva del contatto elettrico e il deltaplano rimase acceso. Ora l'uomo teneva la mano alzata pronto a darmi il segnale per fermare tutto.
Avevo la tensione alle stelle e con gli occhi obliqui guardavo la sua mano.
All'improvviso l'abbassò. Spensi il motore e tenni la barra neutra. Ogni rumore cessò e c'era solo il vento che fischiava fra la struttura del velivolo.
Lui alzò la visiera e gridò "grazie, ci vediamo giù". Alzai la mano per salutarlo e nel silenzio più assoluto si lanciò. Mi turbai; un conto era volare con un motore e delle ali, altro era tuffarsi nel vuoto cosa che non sarei mai stato capace di fare e nemmeno ci speravo.

Il deltaplano ebbe un sussulto verso l'alto dovuto allo scarico del peso dell'uomo che guardai sotto di me ed era già assai distante con il corpo in posizione a stella e la tuta che svolazzava.
Tirai un sospiro. Ora ero più tranquillo. Misi mano al contatto elettrico ed in seguito alla maniglia di avviamento per riaccendere il motore. Gridai simpaticamente ancora via dall' elica e tirai forte.

Non si accese, riprovai ancora ma non si avviò. Sbuffai come per prepararmi al fatto che avrei avuto dei guai ma in realtà non ci credevo ancora pienamente. Certamente avrei voluto fare un bell'atterraggio per via dei parecchi spettatori ai bordi della pista. E forse per questo che, continuando a provare ad accendere il motore e non riuscendoci, anziché restare sulla pista ed atterrare a motore spento, con il rischio di sbagliare l'atterraggio e travolgere anche qualcuno, inconsciamente lasciai andare il deltaplano dove voleva concentrandomi sull'accensione e sperando fino all'ultimo di avere esito positivo. Pompai miscela dal serbatoio al carburatore, riprovai fino ad esaurire le forze. Ormai ero troppo basso e dovevo trovare un posto adeguato dove effettuare un'atterraggio d'emergenza.

C'era un prato quasi perfetto, con l'erba tagliata ma non riuscivo a stimare se ci sarei arrivato data la bassa quota alla quale mi trovavo. Inoltre avrei dovuto virare abbastanza stretto per passare dietro ad un albero e raddrizzarmi in fretta per l'atterraggio con il rischio ulteriore di stallo.
Non me la sentivo di rischiare. Virai a destra molto prima passando fra due alberi e trovandomi davanti un campo di granoturco con le piante già alte un metro e mezzo circa.
Ero impietrito ma non era la paura. Era una depressione improvvisa e profonda. Il delta scendeva ed impostai un'atterraggio perfetto. Tirai leggermente la barra a me per evitare uno stallo e gridando "no", atterrai nel campo. Fu come un fulmine caduto in pieno giorno.
Dopo circa venti metri di frustate, il velivolo si piantò d'improvviso e la barra mi venne contro il petto piegandosi. Ero fermo, ero vivo. Ma questo non mi meravigliava più di tanto. Ero incastrato e con sforzo e lentezza mi slacciai le cinture e mi liberai dal posto di pilotaggio.
Sentivo dolore alle cosce allora abbassai i pantaloni e vidi dei lividi rossi sulla parte anteriore di entrambe. Dietro il delta c'era una striscia di piante abbattute e mi trovavo quasi al centro del campo ma non sapevo la mia posizione geografica. Controllai i danni e presi fra le mani ancora la maniglia di accensione.

Tirai forte ed il motore partì.

Storia vera accaduta nel giugno 1998.

Claudio Lupi